sabato 7 gennaio 2012

Natale con i Kuna Ayala


Siamo al Sud! Lo dice il sapore della zuppa di pesce, lo dice il modo in cui i ragazzini cantano le canzoni a squarciagola, la vicinanza dei corpi che ballano! Che allegria, siamo in Colombia, siamo in America del Sud!! Condividiamo l'esperienza del viaggio tra Panama e Colombia.


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DOV'È LA STRADA?


Sapevate che tra Panama e la Colombia (o sia tra l'America Centrale e l'America del Sud) non esiste la strada?! Io confesso che non lo sapevo! Il problema non è il canale di Panama, quello che unisce i due oceani e che si puó facilmente attraversare su eleganti e modernissimi ponti. L'intoppo è il cosí detto Tappo di Darién, un centinaio di chilometri di foresta che non è mai stato tagliato dall'asfalto.


Che curioso! L'asfalto ha tagliato in due l'Amazzonia, si è fatto il tunnel sotto la Manica e c'è una strada pure sotto il Gran Sasso! Perché invece proprio a metá del continente americano i GPS impazziscono? La risposta non la so, ma posso dirvi le conseguenze pratiche: la Banana (il nostro furgone) è dovuto salpare su container per il modico prezzo di 800 dollari + tasse e cosí tutte le merci che viaggiano da nord a sud, quelle da sud a nord, ma anche quelle che vanno da ovest a est e da est a ovest!!! Noi invece abbiamo dovuto scegliere tra salire su un volo o avventurarci via mare in una zona dimenticata e semi disabitata (vedi racconto successivo). Dal punto di vista economico, l

a mancanza di strada non fa una piega! Posso solo immaginare le conseguenze del Tappo di Darien, una foresta dove pochi si possono addentrare, nei traffici illegali di droga, armi e migranti.


Nell'era della globalizzazione, Eduardo Galeano troverebbe tra Panama e la Colombia un ulteriore esempio del suo “mondo sottosopra”.



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DECISIONI BAGNATE


Cielo o mare? Acqua o aria? Ci è costata parecchia fatica la decisione su come raggiungere la Colombia da Panama: un'oretta di comodo volo o una imprecisata quantità di giorni in mare, rimbalzando tra le isole un arcipelago cosí piccole e dimenticate da non apparire nemmeno nelle mappe? Indovinate la risposta!


Spedito il furgone in un container dal malfamato porto di Colón (Panama) con destino Cartagena (Colombia) e salutata Ana che ha scelto l'aereo, Massi ed io abbiamo raggiunto un piccolo molo nel golfo di San Blas. Questa zona è una riserva naturale composta da quasi 400 isolotti, alcuni dei quali minuscoli, tra le acque cristalline del mare dei Caraibi, dove vivono gli indigeni Kuna Ayala.



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IL VIAGGIO DELLA SPERANZA

Sul molo di San Blas, il 24 di dicembre c'era un viavai impressionante: tutti sembravano sapere che cosa fare tranne noi ed un gruppetto di altri 4 bianchi (guarda caso italiani). Merci, valigie e indigeni : una barca si è riempita di gente poi, senza motivo apparente, tutti sono scesi per salire su un altra; tonnellate di pollo congelato e lattine di birra prendevano il largo per rallegrare il Natale degli indigeni; vari yacht e velieri di lusso trasportavano i turisti adinerati verso atolli incontaminati. Poi, il silenzio! Tutte le barche erano partite e sul molo eravamo rimasti solo noi, sei italiani, a chiederci dove avessimo sbagliato! In quel momento appare una imbarcazione diretta verso sud: ha sei posti, giusti per la comitiva italiana.




Davide (uno dei 4 italiani), Massi ed io ci guadagniamo i posti in prima fila: all'inizio il viaggio tra gli isolotti era incantevole ma, usciti in mare aperto, il gioco si fa duro. Ad ogni onda prendevamo dei gavettoni tali che era necessario sputacchiare l'acqua per intrattenere conversazione con il vicino; Massi piangeva in aramaico antico mentre la sua schiena si sbriciolava, vertebra per vertebra, per i colpi della barca; dietro di noi i Kuna Ayala ridevano e gridavano felici come se stessero sulle montagne russe, mentre il capitano (un sosia di Hugo Chávez) scrutava l'orizzonte e guidava l'imbarcazione con indosso una maschera da sub; al suo fianco gli altri italiani, Sara, Tiziana e Luca sembravano abbastanza verdognoli! Quando, completamente bagnati, Davide dichiara: “Mah, almeno (l'acqua) è calda!” ci prende un attacco di risate isteriche fino a destinazione: l'isola di Caledonia.



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L'ISOLA DI CALEDONIA


Tutta l'isola di Caledonia era in lutto ed aspettava l'arrivo della n

ostra imbarcazione; il molo era pieno di indigeni e indigene con i loro vestiti tipici, in uno spettacolo degno del film Mission.

Le donne indossano parei colorati con dei corpini ricamati a mano, braccia e caviglie sono avvolte in fasce di perline colorate, un fazzoletto rosso tra i capelli e una linea verticali dipinta tra la fronte e la punta del naso.

Gli uomini invece sono piú occidentalizzati ma il vestito tipico prevede camice verdi o azzurre intenso, cappello e pantalone nero; hanno uno stile niente male alla Jakson Five. A completare il quadro surrealista, sul molo tra gli indigeni ci sono pure due giapponesi! Poco dopo siamo di fronte ad un piatto di polipo e banane fritte, finalmente con i vestiti asciutti!



Ma le sorprese stanno solo per iniziare: quella sera c'è il funerale di un anziano del villaggio, morto di prostata a 82 anni. Dopo la cena, mi infilo nella capanna piú grande dell'isola dove tutto il villaggio é riunito nella penombra: il morto è steso su un amaca, la vedova canta una melodia struggente in lingua kuna, si brucia incenso attorno al fuoco. Alcune donne si siedono accanto a me ed iniziano a spiegarmi le loro tradizioni: non si puó piangere altrimenti gli spiriti negativi verranno all'isola; il lutto si esprime cantando e una persona per volta improvvisa una canzone che racconta dei momenti vissuti assieme. In questo caso la vedova ringraziava il defunto per aver vissuto cosí tanti anni e non aver lasciato orfani i suoi figli.


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FESTEGGIANDO CON I KUNA


A Cartí, un altra isola, la fortuna vuole che possa assistere alla festa per la prima mestruazione di una adolescente. È un gran evento e vengono amici e familiari dalle isole vicine. Alla ragazzina vengono tagliati i capelli per la prima volta e la famiglia prepara la chicha per tutti, una bevanda della fermentazione della canna da zucchero. Ovviamente anche lí, mi sono infilata dentro!


Tutti bevono e fumano a volontá, anche le donne che si abbracciano e ridono ubriache. L'accoglienza è grandiosa: dopo pochi minuti avevo un vecchietto ebro che dormiva sulla mia spalla facendomi sentire perfettamente integrata alla festa!

- Sta notte balliamo! - Mi dicono.

  • Che bello! E a che ora inizia la musica? - chiedo io.
  • Che musica?
  • La musica... per ballare!
  • Scoppiano a ridere e mi rispondono - Nooooo! Noi Kuna Ayala balliamo senza musica!


Ed effettivamente quando scende la sera, iniziano a ballare in cerchio, tenendosi per mano: il ritmo lo marcano con le mani e con i loro stessi passi, mentre dei vecchietti che cantano al centro del cerchio.


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IN ALTO MARE


Questo è un indimenticabile regalo. Questo dei kuna ayala è un equilibrio fragilissimo, vederli è come sfogliare un libro cosí consunto che le pagine si sfarinano sotto le mani. Qui i bambini non vengono a chiederti monete, né regali: grazie al Bambino Gesú! Allora esistono ancora posti non del tutto contaminati!


Ma come si difenderanno i Kuna Ayala dal turismo di massa che inizia ad arrivare, dal consumismo che approda con le prime televisioni? Al turista dicono di portar via la propria immondizia, ma chi ci crede piú alla favola del “turismo responsabile”? Sono domande a cui gli stessi Kuna stanno cercando di rispondere.


Di notte, sull'amaca chiudo gli occhi e mi vedo di nuovo in alto mare.



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