giovedì 16 febbraio 2012

Il deserto della Guajira


DA SOLA

Non avevo mai viaggiato da sola. Sola avevo fatto moltissimi spostamenti, alcuni dei quali prevedevano vari giorni di cammino, situazioni assurde e complicate. Sola avevo spesso girovagato per metropoli in attesa di qualche volo o treno su cui salire. Da sola avevo anche fatto le valigie per raggiungere un posto di lavoro in un altro continente, nel quale avrei piano piano costruito una nuova vita. Ma non avevo mai fatto lo zaino per andare in un posto con il solo obbiettivo di conoscerlo e stare bene senza la compagnia di nessuno. Era ora di farlo!

Fino a pochi minuti prima della mia partenza sono stata tentata di supplicare Massi a venire con me ma, un pó per orgoglio un pó per cocciuta, sono salita da sola sul bus per la Guajira, regione della Colombia al confine con il Venezuela con una meta in mente: il Cabo La Vela, una punta tra l'oceano e il deserto sabbioso, il posto più a nord dell'America del Sud.

DAL FINESTRINO

Il bus sta per partire, un poliziotto fotografa il viso di ognuno di noi passeggeri, ora sì che mi sento al sicuro... abbandono il corpo sul sedile. Per raggiungere il luogo ci vorranno quasi due giorni di autobus, ho con me un buon libro e vari interrogativi: come mai in Colombia c'è un deserto di dune? E che cosa ci farò io da sola in un deserto di dune?

Guardare dal finestrino degli autobus è terapeutico, l'ho sempre pensato. Vedere il paesaggio scorrere via, scivolare insieme a case, alberi e persone in modo innaturale è un concentrato di impermanenza, ciclicità, accettazione, abbandono. Mi obbliga a riflettere perché non posso ritenere nulla, tutto scorre troppo velocemente. Sono sola e senza obblighi, finalmente fuori da Cartagena e senza argentini nel raggio di parecchi metri (la Colombia ne è invasa)... che sollievo! Il mio umore migliora di ora in ora. Le ultime quattro ore di viaggio le passo sfrecciando tra i cactus in un pick-up che pensavo si sarebbe cappottato ad ogni curva tanta era la roba che trasportava: casse di biscotti, bottiglie di gazzose, zaini, borsoni, turisti ed indigeni in parti uguali.

E finalmente, il Cabo La Vela: una sterminata spiaggia color ruggine circondata da terra rossa e cactus, qualche capanna di legno, di fronte il mare celeste ed immobile. Se non fosse stato per il vociare di qualche bimbo in lontananza si sarebbe detto un villaggio abbandonato. I pochi turisti si diluiscono nella lunga spiaggia. Cammino fino all'ultima capanna e mi accomodo nella casa di Reinaldo e suo figlio Kanner di cinque anni che mi offrono una amaca nella loro capanna. Il tempo sgocciola come una clessidra inceppata. Qualcosa mi dice che qui mi annoierò a morte. Poi succede la prima magia: mi si inceppa la zip della felpa e uno sconosciuto si avvicina per aiutarmi a sistemarla. Un gesto semplice e familiare, senza indecisioni né malizia, come potrebbe fare una madre. Così faccio amicizia con Thiago e Daniel, due brasiliani in vacanza. E' impressionante come quasi non ci sia bisogno di spiegazioni tra noi; parliamo delle nostre emozioni più profonde e ci capiamo perfettamente. La luna è piena e si fa alta in cielo.

SOLA

Thiago e Daniel ripartono l'indomani per punta Gallina. Io resto in compagnia del mio anfitrione indigeno Reinaldo, che guarda il tempo scorrere seduto su una sedia e del piccolo Kanner che non ha compagni di gioco a parte una gallina. Poco lontano ci sono anche tre argentini fumati e silenziosi con cui ogni parola scambiata sembra sempre fuori tono. Mi sento in un piccolo esilio, un isolamento autoimposto dopo essere stata circondata da tante persone che mi vogliono bene, un amore che diviene perfino difficile da gestire. Massi mi manca in modo stridente. Cammino per il deserto fino alla spiaggia del faro. Panorama mozzafiato, il mare cambia colore ogni mezz'ora, nuda tra il deserto e l'acqua fredda e turchina, il cuore è in sospeso, il cervello non smette di parlarmi perché ora, dopo tanto tempo, si sente ascoltato.

ESERCIZI DI APERTURA

Dopo due giorni in solitaria inizio a fare esercizi di apertura: “Ciao, mi chiamo Nico, posso fare colazione con voi?”, “Ciao, come va con il Kit-surf?”, “Piacere, posso sedermi qua con voi?”. Mi avvicino ai turisti e attacco bottone con tutti, non mi vergogno, non ho paura, non mi interessa il giudizio degli altri. Sto imparando che ogni persona... è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita! (Forrest Gump).

I miei anfitrioni vivono al limite della sussistenza, i pochi soldi che gli do io li usano per comprare il riso, la lenticchia e le candele ma in questo luogo tutto è carissimo. Non c'è luce nonostante poco lontano ci sia un mega impianto eolico, la cui energia è destinata a Medellin e le altre città industriali, non certo agli indigeni Wayuu. Qui si trova anche una delle principale miniere di carbone della Colombia e un treno lunghissimo porta via tonnellate e tonnellate di carbone ogni ora.


Non c'è acqua neanche per cucinare e Kenner mi chiede allo sfinimento di regalargli acqua. Dopo tre giorni che mi lavo in acqua salata Reinaldo mi invita ad una laguna di acqua dolce e, armati di secchi e saponi, camminiamo per quasi una ora lungo quella che sembrerebbe la savana africana. La pozza d'acqua non ha un coloro incoraggiante ma quando iniziamo a lavarci, prendendoci a secchiate d'acqua e facendoci lo shampoo a vicenda, diventa una festa. Il piccolo Kenner ride a crepapelle con il suo sorriso sdentato e si fa fotografare con i miei occhiali da sole. Piccole gioie desertiche.


DESIDERI

“Vorrei conoscere una ragazza che mi assomigli, con cui passare tutto il giorno a parlare. E per favore che non sia argentina!”. Mi concentro, dicono che all'universo bisogna chiedere ed io chiedo. Ed ecco un altra magia! Non ne conosco solo una, bensì tre: Katia, una trentenne russa, giornalista, viaggiatrice, in crisi di astinenza da computer, ha occhi verdi e umore nero che mi ricordano la mia amica Arianna; e Ivonn di Bogotá, che studia sociologia, ama viaggiare, sogna di andare tra i guerriglieri del Chiapas e combina pantaloni a fiori con magliette a bolli. Facciamo un gruppetto niente male e parliamo, parliamo, parliamo. Dalle loro bocche escono frasi che rappresentano perfettamente i miei pensieri. E' incredibile scoprire di assomigliare tanto a delle perfette sconosciute, di tre continenti diversi! Cuciniamo la peggior ricetta del mondo, ridiamo, scopriamo insieme nuove spiagge e cerco in loro risposte alle mie domande, quelle che da tempo sono senza risposta.

E' passata una settimana. Non ho specchi e posso solo immaginare lo stato dei miei capelli. Sento però che i miei occhi hanno una luce speciale: la consapevolezza che anche da sola posso andare. Nella notte al Cabo, accucciata nella mia amaca, sentivo l'Universo abbracciarmi e proteggermi. Questa era la sensazione che stavo cercando.

IL RITORNO


L'ultima mattina mi svegliano delle grida... in italiano: quattro turisti insultano una giovane guida turistica. Salto giù dall'amaca e vedo che si stanno per prendere a schiaffi. “Abbiamo pagato per venire in questo posto di merda?” gridano sottolineando bene la parola merda e da un certo punto di vista non gli si può dar torto. Cerco di fare da traduttrice e da “mediatrice culturale” ed effettivamente gli animi si calmano. Alla fine ci offrono un passaggio di ritorno che accettiamo ben contente. Buchiamo una gomma, poi l'auto si blocca. Katia, Ivonn ed io ridiamo e ci abbracciamo. Poi i nostri cammini si dividono, forse ci rivedremo? Chissà! Ci ringraziamo. Il mondo è pieno di donne meravigliose!




Quando arrivo a Santa Marta chiamo Massi per incontrarci. Mentre aspetto inizio a chiacchierare con una signora che vuole sapere tutto di me, dell'Italia e della mia famiglia. Poi si commuove e mi dice che sua figlia è morta il 4 di febbraio dell'anno scorso. E' lo stesso giorno in cui abbiamo iniziato il nostro viaggio.

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